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Roby Farina

Roberto Farina vive e lavora a Milano. Ha a che fare con "la diversità umana", con quei magnifici esemplari della nostra specie che "hanno gli occhi dei fanciulli, ma gli anni degli adulti". E' un innamorato. Uno di quegli esseri umani che, quando parlano, hanno il dono della grazia e il carisma della persuasione. Perchè Roberto è una musica. E' quella musica irripetibile che s'accompagna alle multiformi parabole della pioggia; Roberto è l'essenziale mesciuto alla concretezza, ma è anche il sogno che compenetra i colori. E le forme. Roberto vive d'arte. Per amore dell'arte. Dentro di essa. Arriva, d'improvviso, con il suo zainetto blu sulle spalle, come dalle viscere della terra, non s'accorge di chi lo aspetta e parla della Resistenza, di chi a lui la Resistenza l'ha raccontata, perchè non cadesse nell'oblìo: e Roberto non si sottrae mai alle promesse. Ha scritto di e con Onorina Brambilla Pesce; di Giandante X; scopre tesori di inestimabile valore artistico e li salva... dalla dimenticanza, sì; ma soprattutto dall'ignoranza. E' uno scopritore. E' un archeologo della bellezza. Roberto è uno scrigno: accoglie quel che altrove, nelle case che vedono consumarsi orgasmi d'Arte, diviene ingombrante o deposito per la polvere e accarezza i parti dei suoi artisti come se in essi fluisse sangue rosso. Ne fa vibrare la vis vitae per uno scopo soltanto: la condivisione.

E' autore di I dolori del giovane Paz, una biografia di Andrea Pazienza; Il pane bianco (con Onorina Brambilla Pesce) e La balena in fiamme e Flavio Costantini. L'anarchia molto cordialmente (2016).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                      Roberto Farina, GIANDANTE X, 2014

                                                                                                      foto di copertina

 

 

 

 

“Bruciare dentro”: Roberto Farina e Giandante X. Tra poveri e stelle.

 

 

Non è vero che stiamo respirando una decadenza senza fine, non è vero che la vita è una corsa senza meta. Non è vero che attraversare i tramonti significa raccogliere la polvere lasciata a marcire dai serpenti. Lo si scopre, a volte, facilmente. Se si ha il coraggio di passare le dita tra le parole di chi vive per un ideale: l’Umanità.

Generalmente, certe riflessioni le si fanno dopo le conversioni dei santi Paolo sulle vie di Damasco; dopo la variante della sgualdrina di Babilonia che va a civettare con le religioni. La storia, quella che scorre tra le nostre voglie e i nostri disgusti, quella che ci ha dato una libertà che abbiamo creduto, per comodità, fritta, la storia-dicevo-l’hanno fatta gli uomini. Questi uomini hanno nomi, volti, amori, paure. Hanno visto colori, hanno sentito freddo, hanno mangiato dolci e riso in bianco, hanno sentito la pioggia battere sulla propria pelle, hanno ingoiato il fango, hanno impastato salsedine e piombo e poi…l’hanno anche ingoiato. E’ questo che racconta Roberto Farina: è questo-assieme a tutto il resto-che è stato il Viandante, Giandante X, anarchico, pittore, architetto, poeta e-direi-persino sacerdote, alchimista, guaritore; solitario, mendicante, amico, amante; pazzo, funambolo e creatura della notte e delle albe, fiore e demone, sedotto e seduttore.

Roberto Farina ha scritto un’opera che non so chiamare saggio, poiché è un romanzo; non so chiamare romanzo, poiché è poesia; non so chiamare poesia, poiché è un’ampolla: dentro vi è custodita “lava incandescente”.

Questa lava si muove dentro il perimetro di un mistero. Il mistero è un essere umano che è nato per cercare, se stesso, sì, ma per arrivare alla mistica sostanza dell’altro, percorrendo la strada sterrata e riarsa del silenzio: è così che-mi è parso di capire-questo figlio di solitudine incontrava l’Uomo. La solitudine striscia, come uno spettro o come una divinità, “lungo i muri” e cerca e si fa trovare, a volte; altre volte preferisce volare e inabissarsi: con l’eterno viandante sembra si equivalgano Averno e Campi Elisi, reconditi anfratti selvaggi e muraglie di città assediate.

L’opera che non so chiamare è un incredibile agorà: leggendo, si incontra Mirko Gualerzi, si entra nel suo studio milanese, nella sua stanza indicibile, si possono ammirare i suoi quadri, le sculture, i suoi cieli-tersi o cupi, a seconda della sorte-, i suoi scarabocchi grondanti di forzature di destini; c’è Idio, Carlo, c’è Gargoyle; ma c’è Dino Formaggio, c’è-forse- Luca Ronconi; c’è pure Alda Merini.

Ci sono Nori, che resta la partigiana Sandra, e Visone, Giovanni Pesce: c’è il grande macello, l’Italia e l’Europa intera divenuti campi di battaglia nelle mani della grande vergogna; c’è “la rabbia di vivere” della guerra di Spagna. C’è il debito e la grazia. Che tutti noi dobbiamo a questi titani.

Questo è l’universo di Giandante X, di colui che ha rinunziato a tutto, un francescano dell’anarchia e un anarchico dentro l’infinita meraviglia di nostra signora Fede nella Bellezza.
In questo universo si è condotti da un Uomo-Roberto Farina-, che non smette mai di affascinare: le sue parole sembrano essere le note suonate dal suo Giandante sulle corde del violino. L’attenzione non smette mai d’essere catalizzata; non si vuol smettere di ascoltare quest’opera che non so chiamare, è come le favole d’un tempo al focolare, come la puntina che legge il disco e fa vibrare nell’aria una voce in espansione. E’ l’odore della trementina che viene a cercarti. E’ come quello che Garcia Marquez non diceva e che, alla fine di un suo scritto, andavi a cercare: fatica inutile, nessuno l’ha trovato mai; ecco la scrittura di Roberto Farina: il desiderio di leggere il non detto e l’appagamento di sentirselo raccontare.

La prefazione è di Giampiero Mughini. In copertina, gli occhi di Giandante fanno tremare.

F.Aurelio

 

 

Flavio Costantini. L'anarchia molto cordialmente.

L’intimità segreta di un alchimista e di un cercatore d’oro.
Riflessioni sul nuovo libro di Roberto Farina.

 


Anche la mente ha le sue ghigliottine.
Ricky Farina

 

L'unico modo di dire la verità è sillabare il silenzio.

Ricky Farina



 

Roberto Farina è la voce più alta di un certo di tipo di letteratura contemporanea, l’unica degna di tale nome: quella scevra di compromessi editoriali, di falsità ideologiche, insensatezze, di commistioni, emulazioni e citazioni. Roberto Farina è uno scrittore, ma ha la vocazione del cercatore d’oro: nel vello della parola, maneggiata da Farina con la maestria che soltanto il suo talento comporta, restano impigliate pepite dallo splendore inarrivabile. Così consegna ai lettori le memorie di Nori Brambilla Pesce, la partigiana Sandra, insostituibile compagna di Visone; il ricordo di Giandante X, anarchico, pittore, poeta e colossale dimenticato; ha contribuito e contribuirà, con una nuova edizione del suo libro, uscito nel 2005,  I dolori del giovane Paz,  alla “biografia negata” di Andrea Pazienza.

 

L’ultima opera, pubblicata per LeMilieu, a gennaio 2016, è una consegna ai posteri: è il “frutto di un decennio di amicizia tra Flavio Costantini e Roberto Farina” e da un’amicizia esclusiva, appassionata, fatta di incontri, di singolari confluenze d’anime, di complicità taciute, di stima, di avverbi man mano arricchiti di sentimento, è stato partorito un libro da leggere e da ascoltare, da percorrere con le pupille e con le dita, da guardare con gli occhi e osservare con il cuore, da custodire come si fa con quegli oggetti che diventano “correlativi oggettivi” della propria liturgia di esistere, perché si tratta di una piccola opera d’arte.

E’ un libro che si fa toccare e fugge ad ogni possibile collocazione di genere: non è la biografia di Flavio Costantini, non è un saggio di storia dell’arte, non è una monografia, non è un trattatello sull’anarchia.

E’, forse, una storia infinita, senza unità di tempo e di luogo, è unione e sintesi di ratio e furor, di ordine saggistico e disordine poetico, è armonia e disarmonia insieme, nutrite da un “fuoco d’incendio” inestinguibile.

Le grandi opere nascono da un attimo di intimo disorientamento infantile: Farina si imbatte da bambino nell’opera di Costantini, sfogliando Io e gli altri-Nuovissima enciclopedia del ragazzo. V’era un’illustrazione che colpiva l’immaginazione di quel bambino nei suoi pomeriggi di pioggia: si trattava dei volti di Sacco e Vanzetti, disegnati di Flavio Costantini.

Farina cresce, la sua curiosità è multiforme, è un Ulisse che percorre in bicicletta una Milano caotica, senza portare mai con sé una bussola; il giovane Ulisse, figlio di Aldo e della bellissima Milena, cerca Costantini, va a trovarlo, fuori tira vento, il mare è tutto un boato: “Entrai a Rapallo, imboccai la statale verso Chiavari e girai a sinistra in una via molto ripida. Dopo un centinaio di metri arrivai a destinazione, l’ala sud di una grande casa immersa nel verde. Alle tre e trenta in punto suonai il campanello del cancelletto. Vidi un uomo comparire fugacemente dietro la finestra del primo piano.

“Arrivo subito” disse socchiudendo i vetri.

Un minuto dopo, mi accolse in casa.

“Piacere, sono Flavio Costantini. L’enciclopedia Io e gli altri? Mi pento moltissimo di averla fatta. Ha tirato su un sacco di marxisti. Lei non è marxista, vero?”.

Un Welsh Terrier mi assale giocoso, con un tempismo di cui gli sarò sempre grato”: così iniziano le grandi affinità e così Flavio Costantini diventa l’alchimista che impregna d’oro il vello di Farina.

Durante la guerra, scappava dai tedeschi, dopo i bombardamenti del quartiere S. Paolo a Roma, e, raggiunto dai soldati, a Flavio fu affidata una terribile bugia: “Non avere paura, ragazzo, non siamo così cattivi”. A diciassette anni, si intuisce bene la ferocia e la paura resterà la maledizione di sempre e l’arte il suo perpetuo esorcismo. Perché Flavio Costantini è un Minotauro esorcista: un lettore compulsivo e un marinaio di ventura (e di professione) che non sa nuotare.

L’opera di Farina è una specie di racconto nel racconto, un intreccio di quadri e di vite, in un entrelacement che costruisce un mosaico irresistibile di rimandi, di curiosità, che insinua un gusto della recherche al cui richiamo è impossibile opporre resistenza: ogni dipinto di Costantini, ogni sua riflessione, ogni suo punto di vista, diventa pretesto per raccontare altre storie, vere, ferocissime. Rosse. Che saranno, per un incanto onirico e folle, tutte inglobate nelle sue Tauromachie, sintesi liriche di anarchie plurali e solitarie.

Così parte l’epopea di personaggi incredibili, uno straordinario catalogo di eroi che si stagliano nell’arte di questo Minotauro impassibile come lame incandescenti ed immortali: sfilano allora Gaetano Bresci “sarto di professione”, anarchico di azione, che stretto nella camicia di forza sosteneva, titano mai stanco, “Non uccisi Umberto, uccisi il re”: Costantini dipinge Bresci in due quadri, il primo teatrale, l’altro cinematografico, come sostiene Roberto Farina.

E poi c’è Passannante e c’è quel Prometeo senza scampo di Ferrer; ci sono i tappeti rossi degli anarchici che sono il simbolo del peccato di tracotanza del quale li accusano i potenti e sono, insieme, il presagio della morte per quel trepidante, compulsivo, letale desiderio di giustizia. E allora l’autore fa chiarire ad Emile Henry, il francese autore di due attentati dinamitardi, la motivazione anarchica: “Le periferie di Parigi sono piene di innocenti, con i loro bambini che muoiono di fame e i vecchi distrutti dal lavoro lasciati a marcire”[1].

È la volta di Sante Caserio e qui Farina ci regala una delle pagine più vibranti, tanto che l’arte del Minotauro Costantini sembra materializzarsi attraverso le sue parole, con una potenza talmente incisiva che sembra vestire l’anima del lettore: “Più passa il tempo più Costantini si allontana dal particolare. Il dettaglio perde importanza perché gli oggetti sono contestuali alla storia, mente la pura forma geometrica è universale. Nei primi quadri possiede l’episodio, le risposte, il mondo. Successivamente si apre alla domanda senza risposta. Il realismo ipertrofico dei primi quadri è, diciamo, una spavalderia di gioventù, un frutto primaverile. L’astrazione successiva è una meditazione adulta, un frutto autunnale”[2].

 

A seguire è la vicenda della banda Bonnot, di Vaillant, il signore “dall’aria distinta”[3] con le bombe in mano; la sfrontatezza di Jacob, quel “mascalzone”, come lo definisce Costantini, che “lasciava sul luogo del reato dei messaggi irriverenti la cui ironia divenne proverbiale” e che “dopo aver praticato un’iniezione letale al suo cane, si iniettò una dose mortale di morfina. Lasciò in fresco due litri di vino rosè, con un biglietto: Bevetele alla mia salute”[4]; il catalogo prosegue con il folle sogno di rivoluzione di Cafiero, finito in una pozza d’acqua in una notte di luna, e Bakunin in esilio alla Baronata; con Cino Lucetti, l’attentatore di Mussolini a Porta Pia; con la tempra ineguagliabile di Angiolillo, tra demoni e prelati; e ancora Mühsam, che durante gli interrogatori cita Shiller, al quale, quando ebbe il permesso di scrivere, “le Ss ruppero i pollici”[5], con il cui finto suicidio, i boia impiccarono la poesia.

 
Costantini lavora al ciclo sugli operai nelle fabbriche, ne scruta i volti, li accende di fatica e di vigore, di dignità e di rassegnazione insieme. Seguirà l’illustrazione di una nuova edizione del libro Cuore: è il 1977 e le aule di scuola di De Amicis diventano “il set di un film horror”[6].

Gli anni Settanta segnano uno spartiacque nell’arte di Flavio Costantini: prende forma “lo spazio del disincanto”, scompare l’azione, le figure non sono più quelle di esseri che agiscono, ma assumono la fissità di istantanee, di pose fotografiche; gli eroi di Costantini sono soli, rifiutano l’immortalità, sono pronti a guardare il limite della loro esistenza e decidono, predatori del proprio destino, di passare le colonne d’Ercole dalla propria vita  con l’ironia tragica di animali danteschi che ingoiano se stessi. Dal 1979, Costantini non dipingerà più figure umane, ad eccezione che nei ritratti: “Gli uomini non li faccio più, sono dei mascalzoni. Me compreso”, dice a Farina.  I ritratti restano una “vacanza pittorica”: Leonardo Sciascia, che stimava il coraggio e la fedeltà a se stesso di Costantini, Primo Levi, Kafka, Emily Dickinson, Rimbaud, Virginia Woolf.

Nel 1982, dagli incubi notturni di Costantini “emerge il Titanic”: Roberto Farina, nelle pagine dedicate a questi lavori, si fa poeta, coglie il mistero che agita l’artista e lo nomina, ma, come i poeti più corrotti dalla Grazia della Poesia, non vuole scioglierlo. Lo lascia lì, il mistero, per far godere il lettore della parola che traduce, in fusione sublime, la vita di un uomo, la sua idea di mondo e la sua lotta sempiterna col destino.

Costantini, allora, è uno che dalla sicurezza del mare viene sputato da un’epoca senza nome sulla terraferma: il simbolismo costantiniano punta dritto al cuore del mistero, fino alla vertigine e, si sa, la vertigine è il cono capovolto della bocca creatrice, mira alle viscere putrescenti di un uomo, più fragile di un insetto su un’effemeride dimenticata[7].

Chi è dunque Flavio Costantini? E’ uno che procede per inchieste, che registra, che ricerca: vuole vincere la paura e lo fa così temerariamente da cercare la Verità, persino quando essa, come una bambola rotta, giace nell’immondizia, tra brani di carne verminosi. Il colore “perfettamente immobile”, che tanto ardimentosamente egli voleva ottenere, era il desiderio al cui altare Costantini portava ogni libagione. E allora il mare, il suo punto di partenza, è anche il suo punto di arrivo: non c’è unità di luogo né di tempo nell’opera come nella vita di Flavio Costantini, ma resta devoto all’unità d’azione.

“L’orizzonte è l’epicedio delle aspirazioni umane”, confessa al suo soldato; Costantini incarna la genialità taurina dell’affettuosa distanza e ritorna, per qualche tela ancora, alla figura umana: è il 2008, dipinge Charlotte Cordai, l’assassina di Marat, “la prima vera eroina della sua pittura”[8], forse l’unica, la vendicatrice, che va alla ghigliottina-è il 17 luglio del 1793-con la vita che le scoppia dentro come un inno alla gioia. Ha venticinque anni, è la carne tremula della rivoluzione.

L’epopea di Flavio Costantini ha avuto due soldati: Roberto e Riccardo Farina. Ai suoi soldati ha sempre dato del lei: “Guardi che se preferisce può darmi del tu…”, gli dice Roberto, un pomeriggio che parlottavano di Lucetti, Baldazzi e dei giornali dell’epoca, e lui, categorico: “No! Il lei è più intimo…”.

I fratelli Farina sono uomini che non “dormono rannicchiati sui propri genitali”[9], sono i pirati meravigliosi della flotta di questo Minotauro irriducibile ed è merito di due cortometraggi di Ricky e Roby Farina, prodotti dalla Chisciotte[10], se possiamo toccare con mano la simpatia, l’estro, l’ironia, le chimere nascoste nell’anima e custodite negli occhi di un artista raro, meduseo, mostruosamente tentacolare come è stato Flavio Costantini.

Flavio Costantini. L’anarchia, molto cordialmente è opera di uno storiografo, di un narratore, di un tessitore di incanti: negli scritti di Roberto Farina i suoi artisti vivono la vita come un gioco d’azzardo; hanno il coraggio degli animali mitologici, soli, quei mostri ai quali non è dato di amare; hanno lo sguardo segnato d’ombra, quasi che nelle loro pupille abbiano trovato ricetto meteore e buchi neri: dentro il loro buio c’è un fuoco che non smette mai di ardere. Non v’è solo bellezza in loro. C’è la vita. Nuda e cruda. E palpita dietro il colore, dentro di esso, nell’ordine disordinato. Nelle manie. Nelle solitudini. I suoi artisti sono tralci di vite annodati al tirso del Sileno; in loro c’è la disarmonia di Dioniso e, come satiri danzanti e soli, battono il tempo di un implacabile ditirambo che non smette più di far sentire la sua eco.

E la lettrice è in debito: la sua gratitudine va a Roberto Farina, per le cose che le ha insegnato, per quanto ha conosciuto; e va a Riccardo Farina, per la Bellezza che le ha infuso nei suoi simposi, per la Coppa di Ambrosia alla quale le ha permesso di bere e perché è stato lui ad insegnare a leggere a Roberto.

 

 

Francesca Aurelio.

 

 

 

 

 

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[1] R.Farina, Flavio Costantini L’anarchia, molto cordialmente, 2016, pp.90-sgg.

 

[2] op.cit., pag. 96.

 

[3] op.cit., pag. 85

 

[4] op.cit., pp.106-sgg.

 

[5] op.cit., pag. 126

 

[6] op.cit., pag. 128

 

[7]  Linea d’ombra, 1986

 

[8] op.cit., pag.149

 

[9] op.cit., pag.154, Farina riporta un appunto dall’agenda di Costantini dell’aprile 2013: “Silenzio assoluto. Tutti dormono rannicchiati sui propri genitali”.

 

[10] Entrambi i cortometraggi sono reperibili su internet, tramite il canale Youtube di Ricky Farina: Costantini, 2009 e Flavio Costantini, 2012.

Amare e non sapere perché. Roberto Farina, I dolori del giovane Paz.

Io sono la mitica anatra migrante
sono ancora una volta perpetuo moto
sono la brocca sognante
desiderio di vuoto.
Andrea Pazienza

 

BAU
Roberto Farina

 

In questo quadro vedrai un uomo errante, cupo e solitario,
immerso nella mobile fiumana delle moltitudini, il quale
rivolge il suo pensiero e il suo cuore a un'Elettra lontana che,
poc'anzi, gli asciugava il sudore della fronte.

C. Baudelaire, I paradisi artificiali

Nella Calabria del nord, quando è il cuore del giorno e il giorno ha la tachicardia, l’unico suono che arriva alle orecchie degli uomini è quello dei passi del demone meridiano, che ti assilla e tu devi ben guardarti dal pensarlo: il pensiero è, di per sé, un’invocazione e, si sa, chiamare i demoni significa essere succubi di uno strenuo gioco degli specchi.

I luoghi più vitali, sempre in Calafrica del nord, “intorno all’ora terza del meriggio”, sotto la canicola, sono i cimiteri, ove la polvere e l’ombra sono solo presagi di superstiziose cannibali voglie di vedove lussuriose, e le fiumare riarse, nel cui alveo ha preso dimora la bellezza velenosa degli oleandri: demoniaca anche la bellezza, ché più è acerba e più avvelena.
Mentre si assecondano invenzioni e apocalissi e si segue con lo sguardo una lucertola che brilla tra le crepe dell’asfalto rovente, arriva l’omino del corriere e ti consegna “l’ultimo” di Roberto Farina, anche se l’ultimo non è, ché è il primo, a dirsela, in effetti, la verità: I dolori del giovane Paz, edito da Milieu. Il “sottotitolo” racconta che è una “biografia a più voci di Andrea Pazienza”.

Ho letto tutti i libri di Roberto Farina e che fosse Nori e il suo pane bianco, Giandante X e i suoi occhi pieni d’ombra, Costantini e la sua cordialissima anarchia, la lettura di Farina è sempre stata una specie di ricerca certosina per la sua lettrice: perché Farina racconta e la lettrice è come se vedesse un film, poi c’è la Storia e ci sono le storie e la lettrice va a cercare, come un topo, nelle biblioteche reali e virtuali dei suoi giorni. Allora accade che la lettrice si chieda: “Gualerzi, chi era costui?”, e ancora: “Passannante, donde giunse sulla faccia di santa madre terra?”.

Farsi domande è cercarsi possibili risposte e, come mi confidò Carlo Lucarelli, dicendomi di Pier Paolo Pasolini, la verità c’è, c’è sempre, magari chiusa in un cassetto, magari non si trova, ma la verità esiste: Farina è un cercatore di verità e la sua lettrice da lui impara le domande che sembrano “domande da lettrice”; poi ella-la lettrice-va a cercare e si accorge che la ricerca è vita e che la vita è travolgente pioggia d’estate, rinvigorisce i campi inariditi, per ingannare la carne che è cibo per vermi.

A proposito di domande, “Andrea Pazienza-Paz-, chi era costui?”

Sulla quarta di copertina del primo libro di Roberto Farina, letto, qualche tempo fa, con la foga di un’adolescente tutta ormoni ed innamoramenti, c’era scritto che l’autore aveva pubblicato per Coniglio editore, nel 2005, la biografia di questo tale: introvabile e la lettrice ben si guarda, per pudore reverenziale, di chiederne eventuale copia superstite al suo autore.

Per placare la mia curiosità, mi cerco Paz su Wikipedia: che cialtrona!
Wikipedia spatascia in faccia, naturalmente, una lapide: nato a… il… e morto il… a… Poi, però, ho continuato a leggere il libro dell’autore che ho messo nel mio personale Olimpo  e Paz è rimasto su Wikipedia.  Ora, Milieu ripubblica I dolori del giovane Paz, il corriere me lo porta, perché qui di librerie, ove respirare un po’ di puzza di colla e glorioso lezzo di carta invecchiata, non ce ne sono quasi più, d’estate poi, figuriamoci: d’estate in Calafrica restano aperti solo i cinesi che vendono calamite da frigorifero a forma di peperoncino, a volte, nella variante della cipolla di Tropea, ma queste sono già da catalogare nel settore delle rarità.

Porto il mio corpo ed il mio libro su una panchina, alla periferia del lungomare, e inizia il viaggio: un passo della prefazione-che in genere non leggo (la mia sindrome di lettrice libertina, non vuole influenze di terzi nel suo libertinaggio!), ma qui è dell’autore, perciò mi interessa- inizia a farmi tremare. Parla di “consunzione del sacro”: “viviamo in un mondo in cui non sappiamo più che farcene della libertà. Questo solo per dare un’idea di cosa intendo, quando dico consunzione del sacro”. E via a parlarne, a sceverare, a rapportare, a suggerire: “la poesia dovrebbe preparare rivoluzionari, e non lettori della domenica”, qui scroscia dentro di me un temporale, meravigliosa acqua santa che si abbatte sul mondo, diluvio universale nell’anima e tra le cosce e quindi: “L’analfabetismo dei valori è il dissolvimento dell’individuo”. Anche i frammenti di un tempo, non sono che simulacra oramai: tutto è nulla, mi dico, e Farina me lo dice con la stessa potenza psicagogica di Orfeo, quando ha convinto Ade a restituirgli Euridice.

Mi aspetto una “biografia a più voci” e mi ritrovo nel bel mezzo di una galleria di ritratti così vivi, pulsanti, così esuberanti nell’ironia, come nella tragedia, nel dramma, come nell’attacco mordace, che la lettura diventa morbo, dipendenza, bulimia. E’ un rapimento musicale: Farina è  Leonard Bernstein della Serenata sul Simposio di Platone e le sue voci sui dolori, ma anche sugli amori, i successi, gli eccessi, le bellezze, le singolarità, le genialità, le pluralità, i grovigli, i vizi e le virtù, le realtà e diversità del vero di Andrea Pazienza sono la sua orchestra d’archi e le sue percussioni; Farina ne è lo sciamano, il sacerdote, ma ne è anche primo violino: pungente, sessuale, fatale, carnale, fangoso, come la terra di Dio.

La serenata è una comédie humaine irresistibile e il sipario si apre su una mattinata milanese “ombrosa e granulosa” con Gianni Canova (e ricomincio: “Gianni Canova, chi era costui?” e vai di internet salvifico!): per costui l’opera di Pazienza è “il parto di un incontro-scontro con la vita” e gli fa subito eco Daniele Luttazzi: Paz era un “angelo-killer” che giocava a palla con la contraddizione. Tra le pagine che più ho amato ci sono quelle del “keatoniano acrobata della malinconia”[1] Claudio Lolli: “Mi colpiva la violenza con cui si buttava nelle cose, i suoi eccessi. Però, mentre quest’aura di dannazione di solito la si associa a qualche aspetto diabolico, nero, cupo, in lui era angelica: era un dannato circondato da nuvolette azzurre” e, per Lolli, Paz come narratore dava un senso alla vita, “che è insensata”. E poi è la volta di Bifo, che considera l’opera del giovanottone pugliese quasi una profezia di una “perdita irrimediabile” umana, oltre che politica. E sfilano Perini, Sergio Staino, che ha saputo dire con tratti decisi, pochi, due o tre, ma sicuri, e indimenticabili, la categoria di uomini alla quale apparteneva Andrea Pazienza: “Era talmente ricco di idee e veloce nel realizzarle, che guardarlo disegnare aveva davvero qualcosa di magico”, e aggiunge: “Andrea viveva in una sensazione di immortalità, rotta da alcuni episodi drammatici”. Ecco, dunque, il prodigioso Paz, un immortale che disegnava, tra Pompeo e Zanardi, icone della sua produzione artistica- perché il fumetto, ben lo dice Farina, Arte è- le copertine dei dischi di Roberto Vecchioni: “Quello che mi ha colpito di Andrea era la sua incertezza, timidezza, immobilità, la paura di rapportarsi agli altri… l’ingenuità nel parlare e nel discutere e però la sua attenzione a tutto quanto. […] La sua bellezza era che, pur essendo chiuso e timido, partecipava a tutto; non parlava quasi mai, ma quando lo faceva erano battute straordinarie”; aveva un grande desiderio di stupire, ricorda Jacopo Fo e poi Scozzari e Sparagna e Munoz. Pagine epiche, perché velate d’un amore vivo e l’amore è guerra aperta, sono quelle di Emi Fontana, la “rossa Fontana d’ormoni” con occhi blu e “cuore di tamburo”: le descrizioni di Farina sono amarene succose, in esse la lingua diventa ospizio di tutti gli orgasmi possibili e I dolori del giovane Paz è un’epopea di pagine che vorresti non finissero mai e che non sai risparmiare.

Jori, Roberto Freak Antoni, che pullula di k, Luigi Damiani, Matarazzo e il suo inno alla esuberanza artistica di Pazienza: “La sua vitalità era talmente vasta che forse la sua creatività non gli bastò per esporla tutta, per farla sfogare appieno, e la droga serviva per ripulire il fondo, per accedere a ogni traccia, a ogni detrito, a ogni idea latente”; seguono Veneziani, Vincino e le parole bellissime di Benka Macrobio: “Andrea era vivo, e nostalgico. Aveva nostalgia del suo corpo d’un tempo[…]: giovane, non avvelenato, in tono perfetto. Aveva l’eterno groppo di non sentirsi più sano”. Ancora e ancora parole, quelle di De Maria, Roberto Farina nel villaggio nudista per l’intervista a Fiabeschi e i fuochi d’artificio delle parole di quest’ultimo: “A me l’arte sembra tutta un po’ una presa per il culo”; la poesia che “è sempre stata scritta domani”, accompagnata dalla paura vista crescere rigogliosa in Paz da Pagliàrulo; David Riondino, presentato da un’introduzione dantesca senza fine bella, bellezza che tutta si contrae in un avverbio, “tapinamente”. Tapinamente sembra una filastrocca e allo stesso tempo un threnos per i funerali di bellissimo efebo e tutto nella sintesi di un avverbio: e proprio i funerali di Paz ricorda Riondino, la “forza sciamanica” della madre e il temporale a salutare il feretro, quasi una pioggia di purificazione. C’è Coniglio e  c’è un epilogo dalla raffinatezza sopraffina: Marina Comandini, la moglie dell’artista, quella che colora le sue tavole in bianco e nero e che centellina ricordi di vita e di lavoro, come se recitasse un monologo di Crisotemi, la figlia silenziosa di Agamennone già morto, e Oscar Glioti, quello che “non ha conosciuto Pazienza e non è nemmeno famoso”[2], quello “la cui prosa sembra incisa in un sampietrino con un coltello dall’impugnatura di madreperla”[3]. L’intervista a Glioti merita un posto a sé: elegante, arguta, ricca, frutto di una sapienza che in lui è divenuta saggezza, perché è come se Glioti sapesse Pazienza, nel senso latino del verbo sapio; le parole di Glioti hanno il sapore di Andrea Pazienza e qui Roberto Farina ha inserito, nell’orchestra d’archi e percussioni, un adagio di piano solo, al quale proprio non si poteva rinunciare.
La chiusa è ancora di Roberto Farina: espone le sue motivazioni, vuole spiegare perché questa corale e il motivo non lo sa trovare; come in tutti i momenti cruciali della vita, quando si ama e non si sa il perché.

La lettrice ha letto il suo scrittore tutto d’un fiato. La prosa di Farina è inconfondibile. E’ una continua scoppiettante danza: Farina è un treno che attraversa le stagioni ed è una mongolfiera che si aggrappa ai capelli dei sogni. Scrivere è spogliarsi di tutte le imposizioni, del santo vero e del beatissimo autogiudizio. Scrivere è peccare, ma solo quando si è veramente nudi. Farina, quando cammina per strada, è vestito di tutte le sue malie, di quella fascinazione che non lascia mai indenni, che porta spesso alla colpa mortale; Farina, però, quando scrive, è nudo come Ade davanti a Persefone che gli dà i suoi fiori; è nudo come Apollo, quando scuoia Marsia e poi ascolta il coro delle ninfe che lo piangono e le loro lacrime si fanno fiume; è nudo come la nascita, nudo come l’alba che partorisce se stessa dal mare.

Voglio, in ultima istanza, trovare la pecca di quest’opera e sta nei diversi refusi, nella grafica disarmonica: le pagine 28-30 presentano un carattere diverso rispetto al resto del volume, particolare meramente estetico, ma tant’è.

Grazie, Roby.

 

Francesca Aurelio

 

[1] Così lo definisce Roberto Farina, op.cit. pag.27

[2] cfr Prefazione, p.7

[3] op.cit., p.152

 

 

 

 

 

“Litri di mistura attraverso le budella”: La ballata del Pelé.

Ogni volta che si apre un libro di Roberto Farina, dopo i primi capoversi, si comincia a pensare di avere a che fare con qualcosa che cambierà il proprio modo di vedere il mondo: è ciò che accade quando si ha tra le mani un libro degno di essere letto, una specie di “classico” post litteram, in cui gli eroi si chiamano Giandante X, pittore (ma essenzialmente un colosso col volto spigoloso e gli occhi quasi invisibili),  Nori Brambilla Pesce, partigiana (ma essenzialmente un colosso dai capelli ad onde e con gli occhi straordinariamente scintillanti), Flavio Costantini, pittore (ma un colosso di eleganza e di cordiale, cordialissima anarchia); poi, ci sono le balene in fiamme ed i fumetti… poi, c’è La ballata del Pelé, che è “una storia di osteria, malavita e nostalgia”, uscito il 1° marzo (Milieu edizioni).

E’ una ballata corale: la voce narrante è quella del Pelé, Giancarlo Peroncini, una specie di funambolo, che, tra furti e musica, attraversa una Milano che affascina, che è stata, che vibra nel ricordo e nella nostalgia, nelle lacrime e nei lutti, nelle canzoni soprattutto, e che sembra poter essere ancora, nelle pagine di questo libro che è un romanzo, una memoria storica, il diario di un’epoca non troppo lontana.

La ballata del Pelé è un catalogo ricchissimo di esseri umani corposi e intensi che, tra i fumi del vino e l’unto della carne, sfilano in una Milano irresistibilmente liquida per le sue acque, che scorrono ctonie e si stagnano, a volte, nei navigli: una Milano che sembra scorrere essa stessa come lava, nei ricordi di un uomo innamorato che parla e di un uomo che si innamora, scrivendo.

Prima di tutto, di questa ballata restano le donne: la storia della Rosetta, con l’articolo determinativo femminile singolare davanti: La Rosetta, la fanciulla della canzone popolare che Pelé ancora va cantando, accompagnandosi con il suo tollofono, nelle notti di una Milano che non vuole lasciar andare: “La storia della Rosetta era ben nota ai milanesi, tutti ricordavano la figura di una prostituta di diciannove anni che una notte d’agosto del 1914 era stata uccisa a colpi di calcio di pistola da un questurino col quale si era rifiutata di andare”. C’è La Tiziana, la moglie del Gilberto: “Le piaceva essere scollacciata, talvolta mostrava le cosce piene e pallide, accavallandole pesantemente o andando avanti e indietro per la Briosca: questo non la faceva sembrare molto virtuosa, ma era tutt’altro che sconveniente. Se lavorava di ventaglio, con le labbra socchiuse, era irresistibile”; a far da contropartita c’era La Elda, “una brunetta piccola, dai modi garbati ma spicci: aveva un modo tutto suo di dire le cose, era dura, ma accompagnava le parole, anche le più severe, con gesti di gentilezza”; c’è La Maria, che “si butta nel Naviglio”, salvata dagli avventori della Briosca, che mostra “due gocce tonde agli angoli degli occhi, pronte a cadere, povera stella”; c’è La Mariangela, con “gli occhi che sembravano verdi come l’erba dei campi sotto la pioggia”; c’è La Didi Martinaz: “Lei viveva liberamente le sue passioni”, “della sua bellezza se ne faceva un gran parlare. […] Lei lo sapeva, portava sulle labbra il vago sorriso delle donne consapevoli del loro fascino”. Donne irrequiete, donne di traverso, donne disperate, donne che hanno saputo vivere e morire. Con goliardica disperazione o disperata goliardia: poco importa.

Poi ci sono gli uomini della ballata: il signor Pippo, Nanni Svampa, il Pinza, Gildo Negri, partigiano e comunista, c’è Bruno Brancher, lo scrittore malandrino, il Wanda, c’è Primo Moroni, Dix, c’è Billy, c’è il Conte, che “lo chiamavano così perché somigliava a Dracula, ma anche perché non usava il dialetto, parlava come i signori insomma. Era alto, snello, aveva i capelli neri. Aveva occhi scuri e brillanti come due olive, appoggiati su due occhiaie che sembravano disegnate con il sughero abbrustolito”: “Il Conte era uno di quegli uomini che si tengono stretta la loro rabbia, perché gli tiene occupata l’anima, gli fa compagnia”; il Conte era un groviglio di magrezza e di passione, passione per la Didi; il Conte è l’uomo dell’amore che mente, dell’addio, dell’infelicità e del coraggio. C’è Erik, “un ragazzo magro dagli occhi chiari, sempre elegante. […] Aveva uno sguardo tagliente, diffidente, ma gentile”, una sera entra in Briosca in mutande, aveva fatto un tuffo nel Naviglio: “Prendetela come una lettera d’addio”, aveva detto agli avventori suoi amici dell’osteria, andava via da Milano, “la città è stata sommersa dalla droga” e lui, giovane pittore, doveva scegliere se andare via o morire.

Quindi, ci sono i luoghi della ballata: Milano, dolcissima, struggente e amara e lenta, le cui “facciate delle case avevano l’intonaco giallo scrostato, sull’acqua verde scorrevano le chiatte cariche di sabbia proveniente dalle cave. La sabbia era rosa. C’erano i panni di mezza Milano: bianchi e colorati, stesi ad asciugare nei cortili o ammucchiati nelle ceste delle lavandaie.[…] Le chiatte arrivavano, i tram sferragliavano, i treni partivano e in mezzo c’erano ombrellai, lavandaie, musicanti  e perdigiorno”; il Naviglio e la Darsena, la Briosca, lo zoo, le Tre fontane. C’era Bombe e c’era l’ippopotamo, c’erano i fili di rame del telefono usati come corde per le chitarre e c’erano i monaci dell’abbazia di Chiaravalle che facevano a cazzotti con i preti di piazza Bologna.

La ballata ha note di malinconia, è la mancanza di un mondo dove c’era l’amore e la memoria, la solidarietà e l’amicizia. C’era la passione e c’erano le stragi. C’era persino il perdono. C’era la musica, che stordiva e che leniva, che faceva le sue battaglie e non si vendeva mai; c’era la musica pura, quella che non conosceva il vil denaro; c’era l’anima degli uomini. C’era l’umanità. C’era la giovinezza, magra e densa. C’era un dialetto viscerale e c’era la violenza.

Nella ballata c’è l’anima del Pelé, che sembra fare l’occhiolino a quella della poetessa, Alda Merini, che, come lui, ha cantato Milano, ma ora la città è “una grassa signora piena di inutili orpelli”[1] . Pelé è in tutti i suoi ricordi. Pelé, al quale ora sua moglie Rosanna ricorda di fare l’insulina, è l’aedo di un mondo che non è più, di un sogno vissuto tra fiori e rovine, tra grappe, Negroni, il busto di Lenin sullo scaffale, il “bianchin sporco” e l’odore di minestra.

Non resta che cantare per un’altra emozione; rubare una zolletta di zucchero da tuffare nel caffè e lasciare che una donna rimanga sveglia ad aspettare ancora un po’.

La scrittura di Roberto Farina è come il lievito madre, trascina l’anima in un impasto che ora travolge, ora carezza, ora commuove, ora fa tremare. Roberto Farina è scrittore di eleganza rara: carismatico, impetuoso. In ogni sua opera c’è un turgore nuovo, simile a quello delle gemme che, a primavera, si approntano ad esplodere. Raffinato e ingordo di Suburra; anarchico, come la libertà; sensuale, come un tango lontano, che è vampa di sperma e di nostalgia.

 La ballata del Pelé è la sintesi di un gusto tutto “fariniano” per le cose belle: è impreziosito dalle illustrazioni di Elfo, dalle fotografie dell’archivio personale di Pelé, dal ritratto del Pinza di Erik Scheller, da saggi e interviste di chi c’era e da un cd registrato al Ligera tra il novembre del 2017 e il gennaio del 2018.

Un romanzo, un saggio, uno spaccato di storia contemporanea, appassionatamente vissuto, amorosamente cantato.

Francesca Aurelio

 

[1] Alda Merini, Canto Milano, 2007

“Non siamo botti vuote, ma campi di battaglia”: Fuochi, il nuovo libro di Roberto Farina edito da  Le Milieu.

C’è uno scrittore che è un aedo: la sua prosa è come il canto di Demodoco alla corte di Alcinoo, commuove e fa godere; i suoi racconti sono come gli amori di Ares e Afrodite: incomparabili, di guerra e d’amore, di mistero e di lava.

Roberto Farina è un equilibrista che, dalla sua corda sospesa a mezz’aria, guarda le mongolfiere compiere i loro virtuosismi nel cielo e i loro Fuochi sono alimentati dall’attaccamento alla vita, dall’istinto alla gioia, pur nella consapevolezza, che mai viene meno, neanche per un istante, d’essere mortali.
 E Farina, che pure non lesina la brutalità della morte e non fa sconti alla coscienza feroce della precarietà d’esistere, tesse un canto alla vita che sboccia, che ama, che trema, che rischia, alla vita che esplode e che si reinventa, a chi si rigenera e non risorge (chè la resurrezione sarebbe un’illusione tremenda), a chi non si arrende, a chi fa della generosità il suo fiore sul petto, a chi deve andar via e a chi non è mai stato.

Fuochi è un’edizione speciale: è un’ampolla che custodisce il secretum; sono quattro racconti che, insieme, formano una corona di cellule vive: ogni sillaba secerne un liquido emozionale, che nasce dalle stimmate dell’homo humanus e diventa seme che feconda la terra, immane e vorticoso utero che, accogliendo, rigenera in quell’anaciclosi inesorabile, unica consolazione, unica centrifuga di speranza.

Ogni racconto è un monito a bere tutto il calice della propria esistenza: Giancarlo Bugetti gioca da sempre col fuoco e “la sommità del (suo) cuore sembrava scucita”, si commuove facilmente, perché ha “il cuore spezzato”; “Gianca” ha temuto sempre i “due morsi di lupo” e il lupo non lo ha risparmiato: lui però spegne la luce per non vedere le sue ferite, almeno fino a domani.  Etty Hillesum è la fanciulla dei fiori, la ragazza “golosa”. Etty è amata da Klaas, ma poi fa la lotta sul tappeto con il dottor Spier, si fa inseguire da un verso di Rilke e, ferma davanti ad un lillà, guarda passare due SS tedesche a pochi metri da lei: “Come possono coesistere tanta bellezza e atrocità?”, si chiede. Anche Etty viene ferita a morte, come Gianca, e anche lei sa che “Siamo degli avamposti di universo, disseminati in tutto il mondo”. E’ la volta di Idio, il milite ignoto, il bambino generoso, il fanciullo che cura il dolore con l’erba spargine, il giovane che va alla guerra e alla guerra Idio conosce la morte; la madre lo chiama Bimbo e la trincea lo ingoia; di tanti giovani non restano che monumenti al Milite ignoto e, nel giorno della festa e delle commemorazioni, una madre “piccola e minuta”, guardando una statua in onore ai caduti, non può che dire:”Non somiglia per nulla al mio Bimbo”.  L’ultimo racconto è dedicato a Kaspar Hauser: in lui si cela un mistero mostruoso; lui non è oppure è e non può essere; lui è l’errore che conferma la regola; Kaspar è l’enigma, Kaspar è un redivivo Edipo, una novella Gorgone: i mostri non possono amare.

Fuochi ha quattro fiamme: una più rubescente dell’altra, caldissime scintille di lava universale, lapilli di magma ancestrale. Roberto Farina scrive con penna incandescente, a sangue caldo. Quando la passione si infiamma, l’incendio travolge e non c’è contrario che possa annullarlo. Roberto Farina ha spiato Efesto, mentre lavorava nelle sue fucine, ha scaldato il suo cuore alle fiamme del dio e ha sognato quattro eroi che restano, come un tatuaggio, sulla superficie dell’anima.

Degna di nota la copertina: un nome, un titolo e un dipinto –incandescente- di Giandante X.

Francesca Aurelio

R. Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato: un piccolo capolavoro pieno di refusi.

(LeMilieu)

 

E’ un giorno d’un giugno di pioggia e marmellata. Ho appena finito di leggere l’ultima pubblicazione di Roberto Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato. Il mio umor cangiante, come queste mattine che “doveva essere estate e invece…”, d’improvviso ha subito una specie di mutazione genetica: avevo custodito per giorni il libro sul comodino, attendendo che la didattica a distanza e gli adempimenti di fine anno scolastico mi concedessero di concedermi il lusso di una tregua.

La tregua è arrivata e che tregua! Tre ore traboccanti dell’impetuosa giovinezza di un ladro scrittore che incontra fatidicamente “l’ultimo picaro” di nascita, “l’uomo delle biciclette gialle” di mestiere, il poeta per grazia ricevuta.

In realtà, come sempre accade per i libri di Farina, non si sa mai quale sia il limite tra romanzo, saggio, biografia: ciò che crea Roberto Farina sfida ogni definizione teorica ed esplora terreni di scrittura abitati dallo stupore, dalla seduzione, da quel desiderio di percorrere le sillabe con le mani, con gli occhi, con la bocca… Ad ogni sillaba conquistata, si entra in una sorta di turbamento che invade il tempo e la spazio e ti trascina nella dimensione smisurata di spaccati di vita dei quali poi è come se si avesse il sentore di aver fatto parte. E allora eri con Giandante che percorreva le vie impervie dei suoi volti, eri con Nori che sognava il pane bianco, eri con Gianca morso dal fuoco.

Questa volta il lettore è sopraffatto dai vent’anni travolgenti, avventurieri, di un irresistibile Roberto Farina, che si lancia, come il piè veloce Achille, nella sua giovinezza affamata di eterni oggi e, allora, ecco che Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è un romanzo di formazione, un atto di gratitudine, un ricordo sublime, un dono che vuole denudare la bellezza.

Il libro si apre con un furto e una giustificazione: il ragazzotto milanese che ruba Tre monete d’oro e la descrizione di una passione della giovinezza, che è come un bicchiere d’acqua fresca sotto la calura: “Eravamo sorridenti, giovanissimi, con la coscienza tersa come un cielo d’estate sempre blu. Chi ha avuto questo mucchietto di cose tutte insieme sa di cosa parlo, quando dico che eravamo felici”, felici come i titani, perché “Anche Prometeo era un ladro”.

Quindi, Farina sfodera una vera pubertà della parola, una scrittura di entusiasmi, che si posa sulla pelle come lenzuola fresche alla controra. L’incontro con Bruno Brancher che “trottava colorato e smuoveva l’aria all’intorno”: sembrava “traboccare vitalità?”, si chiede il giovane Farina, e a quell’incontro sembra d’esserci stati.
Di Bruno viene fuori un ritratto strabiliante di “un monello pescato con le mani nella marmellata”, ma anche di un uomo dalla sofferenza indicibile: Bruno la vita se l’era ingoiata con tutte le sue spine, con tutti i suoi macigni e le sue disperazioni. Con ostinazione e testardo attaccamento.
Il carcere diventa per questo ladro balbuziente il luogo della trasformazione: “In carcere ti tolgono la libertà e ti danno la noia. Una noia mortale, disperata. […] Fu allora che imparai a scrivere, intendo dire a mettere a posto le sillabe per poi formare le parole e in seguito un pensiero, e poi incominciai a leggere, leggevo di tutto, dai fumetti a Tolstoj, quando non capivo qualche cosa, andavo a farmela spiegare da un laureato, ce ne sono tanti in carcere”.

La casa di Bruno era per Roberto un’alcova di misteri, che sapeva di  “legno vecchio e tabacco” e nel cortile c’era un pesco a coronare la strana aura del luogo: “Quel pesco non scavalcava l’inverno, lo attraversava fiorendo”, esattamente come Bruno.
Via dei Cinquecento “brulicava di vita” ed è occasione di vedere la signora che salvava i fiori, Pilù, il vecchio che cantava la canzonetta del Balilla o l’Internazionale, i due del piano di sopra che fanno l’amore. Bruno osserva; Roberto lo asseconda e poi fantastica. Fanno un patto d’amore e il loro giuramento si inorgoglisce di Barbera, una manciata di noci e grana a cubetti.
A questo punto si è completamente sedotti: dalla vitalità di Brancher e dalla vitalità della parola di Farina, connubio senza fine bello. E a quella domanda-traboccare vitalità?- la risposta è affermativa.

 Quasi a metà racconto, eccoci a “L’orrendo misfatto”: un delitto d’amore raccontato con amore. Siamo a pagina 42 e si prova un misto di commozione, rabbia, rispetto, dolore, ma soprattutto si ricambia amore. Per il candore di un uomo che afferma: “Sono solo innamorato di Patrizia, che tiene solo trentadue anni meno di me”. “L’orrendo misfatto” gli costa un’atroce galera, divenuta educazione di sé a resistere: si sentiva braccato e cercava la solitudine, fino alla decisione di “non piangere più”; allora, durante la rivolta di Capodanno a San Vittore, Bruno con le Confessioni di Sant’Agostino in mano, pensa a Patrizia.
Poi le poesie di Ricky, il rapporto con Paz; l’offesa del Botolo, il furto delle poesie “del suo amato François Villon (che lui pronunciava con tre “L” ben scandite)”. Le amnesie, il cuore in mille pezzi, i ricordi d’infanzia, l’estate in Salento, Marcinelle. Milano, la Milano di Bruno, della sua Alda, di Ricky, di Roberto. Un finale che lascia senza fiato.
“Cin, cin, Bruno! Scrivi, scrivi! Se Euridice è perduta, ci rimane il canto di Orfeo. Il poeta strappa il terreno alla morte. Il resto è grammatica! Salute, salute! Cin cin!”.

Per pagine così, ci si può vendere l’anima: Farina è come la luce del tramonto che sbatte sul marmo bianco di una scultura; non se ne può parlare. La si deve vivere. Farina è Prometeo. La sua scrittura è il fuoco. E il lettore è “un uomo che mangia pane” investito dalla grazia.

Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è fecondo seme di giovinezza in un mondo che, ahimè, è ridotto a un pavimento di scadentissima graniglia graffiato da scarponi chiodati. Però è come se Medea, la tradita, fosse ascesa all’Olimpo e lo avesse trovato abitato da due divinità superstiti, immortali, libidinose, eccelse. Due soltanto.
E lei rinasce dopo lavacri sacri di poesia. Per stanare refusi. Per baciare in fronte quella giovinezza.

Francesca Aurelio

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“Semplice come bere un bicchier d’acqua”: Sarà perché ti amo. Storia di un uomo tra parentesi.

 

 

Sei mesi fa ho letto Il conte di Montecristo: i capolavori producono nel lettore un cambiamento sostanziale ed essenziale, che porta ad una specie di “svuotamento”. Sono stati, quelli trascorsi, gli unici mesi della mia vita nei quali, da che avevo sei anni, non ho trovato tra le pagine un’emozione, un palpito, una scintilla. C’è voluto il 27 gennaio, data di pubblicazione di Sarà perché ti amo. Storia di un uomo tra parentesi (LeMilieu) di Roberto Farina, per ritrovare la luce e riconciliarmi con la Parola, a me necessaria, e con me stessa. E’ un libro che si fa gustare come una fetta di torta di frutta. È un saggio? È un romanzo? Impossibile stabilirne i confini. Perché è una calda memoria familiare, nella quale sembra di sentire il sapore dei cibi di Milena e la gioia fragorosa delle risate di Aldo; sembra di vedere le fossette di Dario, le bambole squartate di Lory, i materassi di Roby; pare di potervi ascoltare la voce di Eugenio: “Amo solo te, Isuccia” e, intanto, Isabella, fumava e chiudeva le finestre al sole, svogliatamente. E, nei racconti di famiglia, c’è Il Cairo, c’è Roma, c’è Monaco. C’è l’Egitto esotico, con i suoi dolci, le sue contraddizioni, i suoi sismici appuntamenti con la storia; c’è l’Italia del dopoguerra e l’Italia degli anni ’80; c’è la Germania evoluta e c’è il sogno di un altrove; ci sono i castelli in Scozia e le ville tedesche; c’è il compleanno di Milena in Versilia e ci sono due bambini seduti sul tappeto o nascosti sotto la capanna fatta col lenzuolo. C’è la musica. C’è la storia di un uomo “per bene”, senza fronzoli; un Ettore moderno, onesto, che sa fare il suo mestiere, artisticamente, consapevolmente. Pienamente. Che sa districarsi in mezzo ad un labirinto nel quale boccheggiano o nuotano, a seconda dei casi, pescecani stravaganti, sboccati, decisi, istintivi. Sopra le righe. È un libro di radici e di ricordi. Intersecati a creature singolari.

Dario, “l’uomo tra parentesi” è, invece, creatura plurale: nella sua dolcezza, nella sua bontà, nella sua fedeltà a se stesso (che è geneticamente fariniana, ma questa è nota personale della lettrice), nel suo aver attraversato solo apparentemente in punta di piedi la storia della musica italiana, nella sua genialità, nella sua coriacea convinzione di poter vivere di musica.

Il libro è Scrittura altissima di un cantastorie inarrivabile: è una Scrittura maiuscola, che sa tradurre la vita; sa dire l’infanzia, ingenua, che si impensierisce per una fotografia di copertina; sa dire l’adolescenza che tuona in una scazzottata tra compagni di scuola; sa dire l’amicizia, l’appartenenza, l’amore.

Il libro è, in verità, una lettera d’amore, come quella di Eugenio a Isuccia[1]: nel caleidoscopio di personaggi irresistibili (Freddy Naggiar, Popi, Ieppe, la “bela tusa” che tirava “su la merda del can”, fiabesca, erotica, dolciastra), resta dentro l’eleganza di quel “levriero iraniano in corsa tra pittbull alla catena”[2] al quale l’Autore sorride con franca ammirazione, forse vagheggiando le spiagge d’Africa, ove riecheggia, alla “controra”[3] la voce suadente e purissima di Dario che canta “Sei la sola che amo” con la tshirt grigia e rossa.

Francesca Aurelio

 

 

[1] Pag.217

[2] Pag.118

[3] Pag. 174: autocompiacimento di lettrice; la controra è un sentimento di terra madre ineguagliabile, che pertiene una franchezza interiore intraducibile.

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