Ricky Farina
L'uomo è ciò che vomita.
Sei la nostalgia di sentirti inaccessibile
nel momento stesso in cui ti afferro.
Nazim Hikmet
La paura ancestrale si esprime in un “tremare di notte”: è, esso, la vibrazione delle radici che giungono all’estremo confine della terra, all’apice del cielo, fin quasi a sfiorare le lune.
Capita ai poeti di “eiaculare davanti allo specchio per fecondarsi”: procedono per immaginazioni, per ossessioni. Per allucinazioni appena percettibili. Come soffi. Come pause che vengono a galla dall’anima del mondo. Il respiro diventa un arcobaleno e il timore è quello del cieco: se Iris variopinta l’attraversasse, egli se ne accorgerebbe?
Toccare il sublime equivale a grattare il cuore dell’abisso: l’uomo umano è sorpreso da “timidezza ontologica”, che è come togliere il fiato ad un creatore imperfetto dinanzi alla sua più magnifica creazione. Il vuoto bucato, il pensiero che cola; la banalità che è quintessenza di un tempo che corre via: tutto è soggetto al tempo. Tutto. C’è una sola eccezione: l’attimo in cui un poeta lascia l’utero materno e i palpiti del suo cuore echeggiano all’unisono con quelli dell’infinito.
Inizia da quell’abbandono, da quella tremenda separazione il viaggio. Verso quei lidi ove “tutto non è che ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà”.
In Ricky Farina è tutto questo. Anche se lui, quando guarda negli occhi le nuvole, “tutto questo” non lo sa.
Egli non sa che tra i suoi passi vibra come un mormorìo di cielo. Che è un contrappunto di Bach, quando precipita la luna.